La prima volta che ho sentito parlare del giovane Boyan Slat, classe 1994, che a soli 16 anni ha ideato un macchinario utile a ripulire gli oceani dalla plastica, ho nutrito un misto di sentimenti che andavano dall’ammirazione alla gratitudine finanche quasi alla gelosia: anche io avrei voluto contribuire in modo così efficace alla tutela dell’ambiente. Il mio apporto invece lo fornisco divulgando informazioni – accertandomi sempre prima delle fonti – e cercando nel mio piccolo di sollevare un poco di consapevolezza.
Chi c’è dietro The Ocean Clean Up?

Il giovane ragazzo olandese di origini croate, Boyan, a 16 anni, in vacanza in Grecia con la famiglia, durante un’immersione nei meravigliosi mari degli arcipelaghi, si trova improvvisamente davanti alla realtà: la sporcizia che braccio a braccio (o pinna a pinna, che dir si voglia) coabitava con tutte le altre creature marine. La cosa deve aver evidentemente colpito il ragazzo in maniera molto profonda, tant’è che oggi è un giovane imprenditore il cui l’unico scopo di ripulire gli oceani.
La prima occasione di approfondimento in relazione alla faccenda dell’inquinamento avvenne tramite un progetto di liceo. Studiando i moti del mare, Slat è arrivato ad ideare un sistema che sfruttando la circolazione delle correnti oceaniche a proprio vantaggio, presentato per la prima volta nel 2012 ad una TEDx talk tenutasi a Delft. La speech divenne immediatamente virale: il ragazzo interruppe dunque i suoi studi di ingegneria aerospaziale per dedicarsi interamente allo sviluppo del proprio progetto. Nel 2013 dà vita a “The Ocean Cleanup” fondazione il cui scopo è sviluppare tecnologie per l’estrazione dell’inquinamento causato dalla plastica dagli oceani e prevenire che ulteriori frammenti di plastica si immettano nelle acque oceaniche.
Come funziona
Il macchinato ideato dal giovane imprenditore olandese, consiste in un grosso tubo di gomma legato ad un’ancora. Quest’ancora scende fino ad una profondità di 600 metri ed è stato in grado di catturare e trattenere i rifiuti della Great Pacific Garbage Patch, ovvero la (purtroppo) famosa isola di plastica, creata dalle correnti marine che, esattamente in quel luogo, fanno confluire tutti i rifiuti che non correttamente smaltiti finiscono ad inquinare le nostre acque.
La buona notizia di qualche giorno fa è che il progetto – all’esito di un anno di test, alcuni dei quali hanno fallito – oggi si può ufficialmente dire che funzioni: sul proprio profilo social, accanto ad una fotografia che mostra la quantità di spazzatura che The Ocean Cleanup è riuscita a raccogliere, il giovane uomo ha riportato : «Il nostro sistema di pulizia dell’oceano sta finalmente catturando la plastica, le reti abbandonate e una tonnellata di minuscole microplastiche! A proposito, a qualcuno manca una ruota?».

I numeri della plastica
I numeri della plastica li conosciamo bene, ma come direbbe qualcuno: “repetita iuvant”.
Una grande parte è costituita da attrezzi da pesca abbandonati o persi in mare ogni anno (tra le 600 e le 800 tonnellate). Altri 8 milioni di tonnellate arrivano direttamente dalle spiagge: questi comprendono rifiuti veramente di ogni sorta. La zona presso cui tutti questi rifiuti sono stati convogliati dalle correnti si trova circa a metà strada tra le Hawaii e la California, mantenendo l’enorme gruppo di rifiuti ben compatto.
E’ noto ormai che la plastica non si BIO-degrada (poiché affinchè questo accadesse sarebbe necessaria l’esistenza di un batterio in grado di trasformare il materiale), ma semplicemente si DEGRADA ovvero si frammenta (nell’arco di lunghissimo tempo) in pezzettini sempre più piccoli che però mantengono la loro struttura. Queste cosiddette microplastiche presentano una superfice tale per cui sono perfetti per intrappolare tossine di ogni sorta che vengono poi rilasciate nell’organismo dei pesci di cui ci nutriamo.
La bella notizia è che The Ocean Cleanup non solo è in grado di raccogliere rifiuti di grosse dimensioni e visibili all’occhio umano, ma anche di recuperare le microplastiche. Infatti, attaccato al tubo di gomma, vi è una rete che arriva fino a 3 metri di profondità e riesce a catturare le microplastiche senza recare danno o disturbo alla fauna marina. I rifiuti così raccolti vengono poi recuperati da navi, in grado di geolocalizzare il macchinario a mezzo sensori.
Il valore aggiunto
Il punto forte di The Ocean Cleanup è che funziona in maniera autonoma sfruttando le forze già esistenti in natura come le correnti oceaniche ed i movimenti delle onde, utili a far si che il macchinario sia in grado di catturare e concentrare i rifiuti che incontra sul proprio percorso, per poterli successivamente smaltire in maniera ragionevole a mezzo riciclo.
E’ dunque un progetto utile, o un mero palliativo? Considerazioni.
La prima reazione inevitabile quando si legge di un macchinario che in maniera del tutto pulita e naturale, sfruttando le forze della natura, è in grado di ripulire i mari dalla plastica – piaga che attanaglia il nostro pianeta – è un inevitabile senso di gioia. E’ una notizia rincuorante che sembra far scorgere una luce alla fine del tunnel di plastica e poliuretano espanso in cui ci siamo infilati.
In realtà, le perplessità che non sono riuscita a non sollevare sono le seguenti: tutta la plastica raccolta verrà riciclata. Come affrontato più volte, il riciclo non è una risposta adatta al problema della plastica poiché i materiali sono riciclabili solo per un numero limitato di volte, dopodiché si deteriorano e non è più possibile procedere al riciclo. Quindi inevitabilmente questa plastica diventerebbe un rifiuto. L’unica via ragionevole è che il materiale riciclato fosse riciclato per beni duraturi (strade? mattoni?) e non suscettibile di ulteriori ricicli che lo deteriorino al punto tale da renderlo, presto o tardi, un rifiuto indifferenziato.
In secondo luogo, questo meraviglioso progetto non sarà mai una risposta adeguata fintanto che la plastica continua ad essere prodotta: è come lavare l’auto sotto una pioggia di fango. Per quanto possiamo lavarla, non la puliremo mai finché continua a pioverci sopra.
Il motivo per cui mi sono trovata a riflettere su questo punto è stata un’osservazione sollevata da un caro amico che lavora nel settore trasporti, in Asia. Mi ha reso partecipe del fatto che precisamente nel momento in cui stavamo parlando, diverse società lavoravano allo stabilimento di strutture nuove di zecca per la produzione della plastica.
Come è possibile? Mi sono chiesta.
La risposta è semplicissima: C’E’ DOMANDA SUL MERCATO.
E allora ecco il punto a cui volevo arrivare: progetti come The Ocean Cleanup e molti altri che sono geniali e brillanti, hanno bisogno del sostengo di tutti i cittadini del pianeta.
Come?
RIFIUTANDO LA PLASTICA, boicottandola a muso duro, e far si che la domanda diminuisca e di conseguenza faccia altrettanto la produzione.
Altrimenti tutto l’impegno di menti brillanti come Boyan Slat si vanificano in un istante: ogni nostra singola scelta commerciale ha un impatto ambientale. Riflettiamoci ed assumiamo responsabilità in relazione ai nostri acquisti.
