Chi, meglio dei pescatori, conosce più da vicino l’emergenza (planetaria) dell’inquinamento marino da plastica? Fino ad oggi la legge italiana prevedeva che chiunque riportasse a riva rifiuti pescati dovesse pagarne lo smaltimento – oltre al rischio di incorrere nell’accusa del trasporto illecito di rifiuti. Il DDL Salva Mare elimina tale divieto permettendo ai pescatori di contribuire alla pulizia marina senza costi a loro carico.
Non è certo un segreto il grave inquinamento dei nostri mari: sappiamo tutti che il livello di rifiuti presenti ad oggi è diventato inaccettabile. Naturalmente è fondamentale sensibilizzare al tema ricordando ai cittadini (e soprattutto insegnando alle nuove generazioni) il rispetto per l’ambiente, i danni causati dalla plastica e l’opportunità di prediligere materiali alternativi.
Tuttavia il mare oggi è pieno di rifiuti: la legge fino a poco tempo fa prevedeva che qualunque imbarcazione che, trovando rifiuti in mare, li avesse riportati a terra, avrebbe dovuto pagarne i costi di smaltimento oltre al rischio di incorrere in eventuali accuse per traffico illecito di rifiuti. Un controsenso, una follia: un pescatore contribuisce a tenere il mare pulito, rubando posto sulla barca al pescato per caricare i rifiuti trovati, e deve pure pagare?
Finalmente è stato da poco approvato dal Consiglio dei Ministri il disegno di legge “Salva Mare” presentato dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa: da un lato ai pescatori sarà permesso portare a terra i rifiuti senza costi di smaltimento, dall’altro il ddl consentirà di eseguire tutte quelle attività di pulizia finora condotte a livello sperimentale. Tra i progetti tra i più significativi “Arcipelago Pulito“, coordinato dalla Regione Toscana e realizzato con il contributo di Unicoop Firenze, grazie al quale sono state prelevate dai fondali dell’alto Tirreno diverse tonnellate di rifiuti in pochi mesi. Anche in Puglia la Regione si sta adoperando per avviare una sperimentazione di pulizia marina.

L’obbiettivo del DDL è quello di contribuire al risanamento dell’ecosistema marino e alla promozione dell’economia circolare, favorire il recupero dei rifiuti accidentalmente pescati, incentivare campagne volontarie di pulizia del mare e sensibilizzare la collettività per la diffusione di modelli comportamentali virtuosi rivolti alla prevenzione del fenomeno dell’abbandono dei rifiuti negli ecosistemi marini e alla corretta gestione degli stessi.
Ricordiamoci che l’Italia è bagnata per due terzi dal mare, chi meglio del nostro paese dovrebbe avere a cuore l’emergenza rifiuti?
Questa nuova disposizione di legge elaborata dal Ministero dell’Ambiente colma un vuoto normativo ed introduce una misura necessaria in linea con la direttiva europea Marine Strategy. Si prevede che nei porti verranno realizzate isole ecologiche per lo smaltimento dei rifiuti dove i pescatori potranno riconsegnare i rifiuti finiti nelle loro reti e meccanismi premiali oltre al conferimento di una certificazione ambientale agli imprenditori ittici che si impegnino a utilizzare materiali a ridotto impatto ambientale, partecipino a campagne di pulizia del mare o conferiscano rifiuti.
I numeri della plastica
Secondo le stime delle Nazioni Unite, i rifiuti di plastica presenti in mare ogni anno si aggirano attorno alle otto milioni di tonnellate. I rifiuti galleggianti sono solamente la punta dell’iceberg. Il mare è letteralmente invaso di plastiche che, frammentandosi e degradandosi in microplastiche, intrappolano le tossine presenti in mare le quali vengono rilasciate all’interno degli organismi dei pesci che le ingeriscono, fino al nostro piatto. Oltre ad intossicarci, la plastica uccide specie marine di ogni sorta sia per inedia, in quanto la plastica riempie i loro stomaci dando loro un senso di pienezza, che per soffocamento. E’ di pochi giorni fa, per esempio, la notizia del capodoglio trovato morto a Porto Cervo in Sardegna, nel cui stomaco erano presenti 22 chili di plastica.

Secondo i ricercatori, nel Mar Mediterraneo 134 specie sono vittime di ingestione di plastica, tra cui 60 specie di pesci, le 3 specie di tartarughe marine, 9 specie di uccelli marini e 5 specie di mammiferi marini. Tutte le specie di tartarughe marine presenti nel Mediterraneo presentano plastica nello stomaco.
In un recente comunicato del Ministero dell’Ambiente si ricorda che il Mediterraneo è un mare semichiuso quindi particolarmente esposto al problema: “si pensa che siano almeno 250 miliardi i frammenti di plastica al suo interno. Nel Tirreno il 95% dei rifiuti galleggianti avvistati, più grandi di venticinque centimetri, sono di plastica, il 41% di questi sono buste e frammenti”.
Ricordiamoci che la plastica non si BIODEGRADA MAI: per biodegradarsi è necessaria la presenza di un batterio che la possa trasformare. La plastica invece si limita a degradarsi, ovvero frammentarsi in pezzi sempre più piccoli, mantenendo sempre la stessa composizione.
Questa normativa è un passo in avanti nella lotta all’inquinamento e di una economia circolare in cui tutto può essere trasformato e nulla diventa rifiuto ambientale.
Nell’attesa dell’approvazione del testo in sede parlamentare, ci si auspica che venga presto anche recepita la recente direttiva europea in relazione al divieto di commercializzazione di plastica monouso: la direttiva che ha creato tanto entusiasmo poco tempo fa, per diventare realtà va necessariamente recepita all’interno dell’ordinamento con legislazione ad hoc.
Limiti della normativa secondo Greenpeace
Seppur la normativa sia un grande traguardo in quanto permette di riportare a riva rifiuti invece che abbandonarli in mare e senza costi per i pescatori, come già segnalato da Greenpeace “per risolvere il problema dell’inquinamento marino non è possibile fare affidamento solo sulle attività dei pescatori”.
Serena Maso della campagna Mare di Greenpeace, dichiara che si ritiene preoccupante e rischioso pensare di certificare come sostenibile un’attività di pesca esclusivamente perché i pescatori recuperino rifiuti dal mare, come previsto dalla legge.
Si rileva infatti che la pesca a strascico abbia come conseguenza la produzione di una quantità copiosa di rifiuti. L’opinione di Greenpeace è che certamente è un bene che questi non vengano rigettati in mare, ma etichettare l’attività come “sostenibile” sarebbe una beffa nei confronti dei pescatori che veramente pescano in modo responsabile, e anche per i consumatori che rischiano di essere confusi da certificazioni poco chiare e affidabili. In più c’è il concreto rischio che i costi ricadano sulla collettività e non su chi produce i materiali in plastica, i primi responsabili dell’inquinamento marino derivante da questo materiale”.

L’unica strada, per Greenpeace, sarebbe quella di abbinare al provvedimento l’introduzione di meccanismi stringenti di Responsabilità Estesa dei Produttori (EPR) ritenendo indispensabili “interventi alla radice del problema che riducano drasticamente l’immissione al consumo di plastica, principalmente usa-e-getta”conclude. La responsabilità del produttore di un bene e i relativi costi di smaltimento, infatti, devono essere estesi alla fase del post-consumo del ciclo di vita di un prodotto, come stabilito dalla Direttiva Europea sulla plastica monouso appena approvata.
“Servono interventi alla radice del problema che riducano drasticamente l’immissione al consumo di plastica, principalmente usa-e-getta”, conclude Serena Maso, della campagna Mare di Greenpeace Italia.
Iniziare dunque, nel nostro piccolo, ad eliminare dalle nostre abitudini quotidiane l’acquisto di qualsiasi prodotto venduto con imballaggi in plastica monouso, è un altro elemento fondamentale per tutelare l’ambiente in maniera reale, ricordandoci sempre che ogni singolo individuo fa la differenza.